“When in trouble go big”
“Se ti trovi in difficoltà, pensa in grande”.
Le domande che un bravo psicoterapeuta non deve ignorare
Negli ultimi anni le iscrizioni ai corsi di psicologia e all’albo degli psicologi sono cresciute in misura consistente. Non è solo un’impressione: gli ultimi dati pubblicati dagli enti di riferimento testimoniano infatti un trend in forte ascesa.
Analizzando i dati CNOP si nota che dal 2010 al 2018 le iscrizioni all’albo sono aumentate dell’85%. I dati ENPAP, d’altra parte – anche se aggiornati al 2019 – raccontano di un reddito medio netto di 14 mila euro annui.
Come si conciliano questi due aspetti?
Come mai la professione attira sempre più iscritti nonostante le prospettive di guadagno non così promettenti?
Capire il proprio perché
La domanda più difficile a cui uno psicologo deve rispondere è quella che riguarda il suo perché:
Perché hai scelto di fare lo psicologo?
Difficilmente l’hai fatto per i soldi, anche se le possibilità di guadagnare bene ci sono.
La mancanza di chiarezza su questo punto è in grado di generare uno stato di crisi decisionale e a volte uno stallo significativo nel percorso lavorativo.
Il “perché” personale (o purpose) riguarda le motivazioni che ci hanno portato a scegliere questa professione. Lo scopo, il cambiamento che vorremmo vedere. La definizione del “perché” è un’attività che si situa a monte di ogni scelta. E il purpose influenza come un domino tutto ciò che sta a valle:
- che tipo di studi fare;
- quale carriera scegliere;
- che orientamento teorico adottare;
- il posizionamento sul mercato;
- lo stile personale adottato in seduta.
Prima di diventare psicoterapeuti, o di scegliere definitivamente la strada della clinica è quindi indispensabile chiedersi:
– Perché volevo fare lo psicologo?
– La mia crisi attuale ha a che fare con la possibile risposta?
– È un momento di fatica e scoraggiamento, o c’è qualcosa di più?
Solo tramite questo processo introspettivo è possibile trovare la propria dimensione. Motivo per cui chi vuol fare questo lavoro non può prescindere da un’analisi personale.
È vera la metafora del “guaritore ferito”?
Secondo la psicoanalista svizzera Alice Miller, le persone che scelgono professioni volte ad aiutare il prossimo di solito si contraddistinguono per “un’alta sensibilità e delle ‘finissime antenne’”. Queste persone, sostiene la Miller, avrebbero alcune caratteristiche in comune:
- Madre profondamente insicura sul piano emotivo, che dipendeva da un certo comportamento o modo di essere del bambino per mantenere il proprio equilibrio affettivo.
- A questo bisogno della madre o di entrambi i genitori corrispondeva una speciale capacità del bambino di rispondervi in modo intuitivo, assumendo – spesso in modo inconsapevole – la funzione che gli veniva assegnata.
- Così facendo il bambino si assicurava l’amore dei genitori e sentiva che si aveva bisogno di lui, cosa che lo legittimava a esistere.
La Miller crede che una persona che ha sviluppato in maniera adeguata il proprio vero Sé, difficilmente sceglierebbe di fare il terapeuta. O comunque non riuscirebbe ad avere la stessa sensibilità.
Le nostre vicende infantili possono metterci in grado di esercitare la professione di psicoterapeuti, a patto che nella nostra terapia personale abbiamo avuto la possibilità di convivere con le verità del nostro passato e se siamo riusciti a sopportare la consapevolezza che, per non perdere il poco che avevamo, siamo stati costretti a soddisfare i bisogni inconsci dei nostri genitori.
Molti psicologi, in effetti, sono stati bambini sensibili che hanno sviluppato la capacità di comprendere i bisogni altrui e di adattarsi ad essi, mettendo da parte i propri.
Da un punto di vista teorico, per conformarsi alle aspettative del suo ambiente (“spinte ambientali” di Winnicott) il bambino deve rimuovere il suo bisogno di amore e attenzione, nonché i bisogni di “carezze” (E. Berne), gioco e sintonizzazione emotiva.
Per fare gli psicoterapeuti dobbiamo quindi aver superato il lutto per la mancata disponibilità dei genitori verso i nostri bisogni primari. Se non abbiamo elaborato la rabbia e la disperazione, rischiamo di trasferire sui pazienti la situazione inconscia della nostra infanzia. Il desiderio del terapeuta di ottenere conferme rischia allora di diventare manipolazione inconscia, come nel caso del “bravo paziente” che porta in seduta solo materiale in accordo con il bagaglio di conoscenze dell’analista, o come la “paziente seduttiva” che molti psicoanalisti raccontano spesso di ritrovarsi davanti.
Anche l’aspetto sociale va considerato
Cos’altro possiamo desumere dalla crescente richiesta di accesso ai corsi di psicologia e alla professione di psicoterapeuta?
In università ci insegnano a considerare sempre almeno tre generazioni per capire la storia di un individuo. I giovani psicologi di oggi appartengono alla generazione dei millennials. Se andiamo indietro di due generazioni troviamo i boomer e i loro genitori (i nonni dei millennials), nati e cresciuti tra due guerre mondiali.
I nostri nonni e genitori, dal dopoguerra in poi, sono cresciuti in un contesto culturale intellettualmente impoverito, saturo di idee stereotipate e bidimensionali. “Non piangere, fai l’uomo”; “La donna deve rimanere a casa e servire l’uomo”; e via dicendo.
Ci si sposava perché arrivati a una certa età era bene fare così. Si doveva rimanere insieme anche quando si era infelici perché questa era la consuetudine, perché divorziare era peccato.
La psicologia era nata da poco e sconosciuta ai più. La teoria dell’attaccamento nasce solo negli anni Sessanta, e all’inizio è molto svalutata e denigrata.
Non si parlava di sentimenti. In molte famiglie non si poteva stare male. Il disagio psicologico era visto come debolezza e tenuto nascosto. Ancora oggi è così, ma per fortuna in misura minore.
Globalizzazione mentale
Noi millennials siamo cresciuti in un ambiente contraddittorio. Un mondo sempre più veloce, tecnologico e complicato a cui i nostri genitori – istruiti da persone cresciute tra due guerre mondiali – non erano preparati.
Più emergevano nuovi disagi, meno la generazione dei “boomers” sembrava in grado di decifrare la realtà.
I genitori dei millennials non avevano gli strumenti per riconoscere e capire il disagio mentale. Così per loro era inspiegabile trovarsi di fronte figlie anoressiche, bambini aggressivi, adolescenti alienati, attanagliati dal panico o schiacciati dalla depressione.
“Ma come, avete tutto, non come i nonni. Loro hanno fatto la guerra e voi vi lamentate?”.
“Voglio che tu possa avere tutto ciò che io non ho potuto avere”.
“Puoi avere/diventare tutto quello che vuoi”.
Non per tutti è stato così, ovviamente. Ma molti dei millennials diventati psicologi sono stati figli ipervigili, ansiosi, preoccupati che i genitori potessero crollare. Hanno vissuto alcune esperienze fondamentali troppo presto (abusi), oppure troppo tardi (trascuratezza). Hanno vissuto in una società narcisista, snob e iper-prestazionale, che ha riconosciuto le proprie emozioni solo durante una catastrofe umanitaria.
E ora che si fa?
È complicato. Dobbiamo fare i conti con un passato difficile, un presente incerto e un futuro nebbioso. E in tutto questo spesso non abbiamo il controllo di molte variabili, come l’andamento dei mercati, crisi economiche, pandemie…
Lasciarsi andare al cinismo e alla disillusione però non è una via percorribile.
Questi sono i valori che noi di Minders vorremmo diffondere:
- sii il cambiamento che vuoi vedere nella tua professione;
- conosci te stesso;
- accetta il caos e l’imperfezione;
- sii proattivo e intraprendente;
- non isolarti in te stesso.
L’indicazione fondamentale, il filo rosso di tutte le tue azioni deve riflettersi in questo noto detto anglofono:
When in trouble, go big.
Quando sei in difficoltà, pensa in grande.
Un modo paradossale per dirti: è quando ti senti sconfitto che inizia la tua battaglia.
Prova a cambiare il mondo, tutti i giorni, un minuscolo passo alla volta.